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Giancarlo Oddi e la Lazio, un amore lungo più di mezzo secolo. L’ex difensore, classe 1948, romano del Tufello, ha legato in modo significativo il suo nome al sodalizio biancoceleste. Indimenticato interprete della Lazio scudettata del 1974, Oddi è rimasto appassionato tifoso della prima squadra della capitale. La Lazio gli è rimasta nelle vene, il tempo non ha intaccato l’affetto per quei colori per i quali si è battuto senza mai risparmiarsi, da laziale vero, disposto a difendere l’Aquila da tutto e tutti. Lo intervisto alla vigilia dell'anniversario numero 50 di quello scudetto picaresco, quello della banda Chinaglia, quando proprio Long John, dal dischetto, in un Olimpico traboccante di amore e vestito a festa, segnò la rete decisiva al Foggia. A distanza di dieci lustri esatti, Oddi riavvolge il nastro e apre l'album dei ricordi che snocciola con sorprendente lucidità. Durante la nostra chiacchierata mi parla del rapporto speciale con Chinaglia e Maestrelli, i demiurghi di quella cavalcata culminata nel primo tricolore biancoceleste. Poi l'ex difensore indugia anche sui lutti terribili che colpirono quella Lazio bella e maledetta, una squadra di matti e ribelli di cui ancora oggi tanto si parla. Oddi oggi è solito intervenire in radio e tv, dove si è calato egregiamente nelle vesti di opinionista. A distanza di anni, il football e la Lazio gli sono rimasti dentro.

Come nasce l'Oddi calciatore?

Per strada. Sono cresciuto con la squadra della mia borgata del Tufello, il Santos Roma, sotto la guida del mio grande amico Matteo Fortarezza, prima di approdare all'Almas Roma, una società importante nella quale feci tutta la trafila, dalla Promozione fino agli Allievi e alla Juniores. Qui mi misi in luce e l'anno dopo fui acquistato dalla Lazio Primavera allora guidata da mister Flamini. Con la maglia biancoceleste giocai e vinsi il campionato De Martino, poi esordii in B con la prima squadra dove collezionai pochi gettoni di presenza. Fui poi ceduto in prestito prima al Sora in D e poi alla Massese in B. E così da mezz'ala e libero passai definitivamente al ruolo di terzino e, all'alba degli anni Settanta, ebbe inizio la mia vera avventura con la maglia biancoceleste. Un sogno che si avverava...

Da quella famosa domenica del 12 maggio 1974 sono trascorsi 50 anni: i suoi ricordi?

Fu una domenica afosa, nella quale si votava anche per la legge sul divorzio. Giocammo la penultima gara di campionato in una cornice surreale, l'Olimpico era meraviglioso, c'erano più bandiere che spettatori. Una sfida all'inizio bloccata, condizionata dal primo caldo stagionale e dalla grande tensione fino all'episodio del rigore, con Giorgio algido dal dischetto. Poi gli ultimi minuti di sofferenza, in dieci uomini, prima dell'apoteosi finale.

A proposito di Chinaglia: chi è stato davvero Long John?

Un fratello maggiore, una persona straordinaria. Giorgio era unico, aveva un temperamento forte, ma era anche un buono, un generoso, amava sempre scherzare. Quante esperienze abbiamo condiviso insieme. Lo conobbi al servizio militare, alla Cecchignola, è stato il trascinatore di quella stagione, un grande leader. Peccato per quell'epilogo triste, nella solitudine americana. Sono convinto che a Roma non sarebbe uscito di scena così.

Ci racconti qualche aneddoto...

Ce ne sono tantissimi, potrei scriverci un libro. Una volta con le rispettive compagne andammo a pranzo a Fregene. Al momento del conto gli misi 200 mila lire in tasca e Giorgio lasciò una cospicua mancia al sorpreso cameriere. La sera del famoso derby risolto da lui e Franzoni, andammo a cena da Tommaso e al rientro a casa di Giorgio, sull'Aurelia, notammo qualcosa di strano: il portiere dello stabile ci disse che alcuni tifosi della Roma cercavano Giorgio per sistemare i conti dopo il turbolento pomeriggio dell'Olimpico. Giorgio voleva vendicarsi, io capii l'antifona e telefonai subito al mister che in pochi secondi tranquillizzò Chinaglia. Un'altra chicca è relativa all'episodio con il mio storico amico Carlo Bologna, pescivendolo, che da romanista verace malediceva sempre Giorgio. Un giorno, a sorpresa, lo misi in macchina e gli feci conoscere proprio Giorgio: tra i due nacque una bella amicizia. Carletto venne anche al funerale di Giorgio, a Roma, nella chiesa del Cristo Re.

E Maestrelli?

Il mister era fuori concorso, capiva prima degli altri. E' stato il segreto di quello scudetto, una persona squisita anche fuori dal campo. Se Giorgio è stato un fratello maggiore, Tommaso è stato come un padre per me. Era subentrato al vulcanico Lorenzo, agli antipodi rispetto a lui. In due anni Maestrelli confezionò una specie di miracolo sportivo, passando dalla cadetteria allo scudetto. Un grandissimo.

Maestrelli Wilson e Chinaglia abbracciati dopo la vittoria dello Scuetto

E Wilson?

Pino è stato il capitano e l'amico inseparabile. Siamo stati insieme fino alla fine, il giorno prima della sua scomparsa avevamo viaggiato in treno alla volta della Campania per ricevere un premio dedicato a Maestrelli. Ci sentimmo al telefono la sera prima della tragedia, mi disse che aveva la febbre. La mattina dopo mia moglie, in lacrime, mi dette la drammatica notizia. Ancora oggi stento a credere che non ci sia più.

D'Amico?

Un grande talento che aggiunse estro a quella squadra. Vincenzino e Frustalupi, un altro protagonista andato via troppo presto, erano i più dotati del gruppo dal punto di vista tecnico. Nonostante fosse il più giovane del gruppo, Vincenzo faceva la differenza in campo. Peccato per quella malattia, la cosa sembrava sotto controllo e invece...

Re Cecconi?

Cecco è una ferita ancora aperta. Fece male il modo in cui maturò la sua uccisione, era appena uscito di scena Maestrelli e per tutto l'ambiente fu un dolore atroce. La sua morte è ancora piena di misteri, è stato tutto ingiustamente sepolto e archiviato. Come è stato possibile, mi chiedo ancora oggi, non riconoscerlo al momento del suo ingresso in quella gioielleria del Fleming? Luciano è l'esempio tangibile che la nostra fu una squadra bella e maledetta, in tanti ci hanno lasciato troppo presto.

Lei ha vissuto da vice allenatore la stagione dei meno nove...

Un' altra pagina di storia. Un anno incredibile culminato in quella salvezza che valeva uno scudetto. Merito di un altro grande personaggio come Eugenio  Fascetti.

L'attaccante che in carriere l'ha messa più in difficoltà?

Diversi. Penso ad Altafini, Riva e Gori, ai miei tempi c'era questa gente qui. Ma il più forte e cattivo in assoluto è stato Boninsegna.

Quanto è cambiato il calcio rispetto ai suoi tempi?

Radicalmente. Te ne accorgi dai falli laterali. Ai miei tempi la rimessa con le mani si effettuava con i piedi fuori dal rettangolo di gioco, oggi ognuno fa come gli pare. Non c'è paragone rispetto a 50 anni fa.

Il suo rimpianto più grande?

La mia carriera è stata esaltante, forse l'unico neo è stata la Nazionale. Valcareggi mi convocò ma mi dovetti accontentare della panchina, peccato, ma non posso lamentarmi. Forse da allenatore avrei potuto fare meglio, ma sono state comunque tutte belle esperienze.

Il momento più bello della sua carriera?

Quel Lazio - Foggia è rimasto scolpito per sempre nella mente, quel giorno ero emozionatissimo anche perchè in tribuna siedevano i miei genitori.

Un suo giudizio sulla Lazio di oggi?

Può e deve fare meglio. Nessuno pretende lo scudetto, ma è doveroso che la prima squadra capitolina rimanga nell'elite del calcio italiano. Lotito, che in vent'anni ha fatto anche cose buone, deve compiere un ulteriore sforzo per consentire ai tifosi di sognare in grande.

Prima di congedarla: che cosa è, per lei, la lazialità?

E' la mia vita, ho girato tanto anche da allenatore, sono stato a Cesena, Palermo e Bologna, ma gli anni in maglia biancoceleste sono stati indimenticabili. La Lazio è la Lazio.

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