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Sergio Petrelli è stato uno dei protagonisti di quella prima Lazio tricolore. Senatore di quello storico gruppo, l’ex terzino sinistro marchigiano fu svezzato calcisticamente dalla Juventus. Qualche anno più tardi, il triennio con la maglia della Roma fece da prologo ai quattro anni in biancoceleste. Petrelli ripercorre gli anni indimenticabili di quella squadra pazza e bizzarra, facile alle armi, divisa in clan ma spietata in campo. Lo raggiungo telefonicamente in un pomeriggio quasi estivo di maggio, mentre è in barca a Pescara a godersi un po' di relax. Il mare, del resto, è stata sempre una delle sue grandi passioni. La chiacchierata è resa godibile da quel timbro di voce talmente deciso e squillante che non diresti che sta per spegnere l'ottantesima candelina. Ne esce fuori un Pedro a tutto tondo, sospeso tra passato e presente, che ci racconta i suoi anni più belli culminati nel trionfo del 12 maggio 1974, un giorno scolpito nella memoria del popolo laziale.

Che ricordi ha della squadra del ‘74?

Sicuramente gli anni alla Lazio hanno rappresentato il periodo più bello della mia lunga carriera calcistica. Con i biancocelesti ho trascorso stagioni intense ed esaltanti, condite da quello scudetto epico, nato quasi dal nulla, vinto contro tutto e tutti. Una gioia indicibile, uno scudetto a Roma ne vale dieci vinti altrove.

E Lazio - Foggia?

Eravamo convinti di vincere. Nel gruppo c'era massima concentrazione, alla vigilia della sfida calò un silenzio quasi surreale. Non disputammo la nostra migliore partita ma riuscimmo, grazie al rigore di Giorgio, a laurearci campioni d'Italia con un turno di anticipo. A fine gara, in seguito all'invasione festosa dei nostri splendidi tifosi, mi rubarono uno scarpino cui ero molto legato, marcato Lazzarini, una ditta di calzature di Ascoli. Qualche giorno dopo, grazie a un mio accorato appello, il tifoso che me lo aveva sottratto in quel dopo gara a dir poco concitato me lo riportò...

Parliamo di Chinaglia: qual era il suo rapporto con Long John?

Giorgio era una persona straordinaria, e non è la classe frase di circostanza. Un autentico trascinatore in campo, dietro quella sua andatura dinoccolata si nascondeva una forza straordinaria capace di travolgere tutto e tutti. Con Chinaglia avevo un ottimo rapporto, ci rispettavamo molto. Anche se ci parlavamo poco, bastava guardarsi negli occhi per capirsi. Di lui conservo un simpatico aneddoto: io ero agli esordi in serie C  con la maglia della Carrarese, la squadra della città d’origine di suo padre. Un giorno lo vidi arrivare al campo per un provino. Giorgio (allora sedicenne) si presentò con una maglietta di cotone leggerissima, la giornata era da tregenda, a Carrara faceva un freddo incredibile, e lui rimase invano ad aspettare che il nostro allenatore lo facesse giocare almeno un tempo. A fine partita si arrabbiò andando via imprecando.

E Maestrelli? 

Il Maestro non è stato solo il nostro grande allenatore, ma un uomo che faceva parte di un gruppo da cui riusciva sempre a tirare fuori il massimo. Una persona misurata, capace di plasmare un gruppo di giocatori veri, che non gli hanno mai voltato le spalle. Il suo merito più grande, al di là delle sue indubbie capacità tecnico - tattiche, è stato quello di aver cementato giocatori caratterialmente agli antipodi.  

E’ vero che il vostro spogliatoio era diviso in clan?

Era il gioco delle parti, molti all'epoca esasperarono il concetto finendo per scrivere cose non vere. I clan magari c’erano, ma facevano parte integrante di un gruppo affiatato e più che mai unito. Noi trasmettevamo quasi volutamente all’esterno questo messaggio negativo, in realtà andavamo molto d’accordo e spesso, dopo gli allenamenti, ci ritrovavamo a cena insieme. Poi la domenica lo spirito di gruppo usciva chiaramente in campo dove ci battevamo come leoni per un unico risultato.

Che cosa successe la sera di Lazio - Ipswich?

Più che una sfida fu una corrida. Eravamo reduci dal pesante 4-0 dell'andata, serviva l'impresa. Pronti, via, caricammo a testa bassa e facemmo due gol mandando in visibilio i 50mila dell'Olimpico. Poi, nella ripresa, salì in cattedra l'arbitro Van der Kroft. Il fischietto olandese non era lucido, puzzava di alcol, e ci negò prima un rigore solare per poi darne uno generoso agli inglesi. Riuscimmo a fare altri due gol, ma il poker non bastò. Sugli spalti esplose la violenza e negli spogliatoi qualcuno di noi, compreso il sottoscritto, stava per perdere la testa. Fu una notte indimenticabile.

Si dice che lei abbia portato a Tor di Quinto la moda per le pistole e la sua propensione alle armi le abbia procurato il soprannome di “el Pedro”: conferma?

All’epoca era facile avere il porto d’armi, non ero solo io a portare la pistola, ma un po’ tutti. Io avevo un regolarissimo porto d’armi e portavo sempre dietro la mia rivoltella. Ero abituato sin da piccolo a maneggiare le armi in Africa, a Mogadiscio, dove ho vissuto per un periodo con la mia famiglia. Noi della Lazio facevamo a gara a chi aveva la pistola più bella, il calibro più grosso. Dopo tre anni però mi stancai e strappai il mio porto d’armi. Abbiamo pagato oltremisura questa moda delle armi, la scomparsa del povero Re Cecconi, morto nelle circostanze che tutti sappiamo, ha fatto poi il resto.

Che tipo era Cecco?

Una persona molto estroversa, gli piaceva parlare gesticolando. La sua morte è stata una tragica fatalità, il nostro Paese respirava il clima degli anni di Piombo e il gioielliere, forse temendo l'ennesima rapina, estrasse la pistola ferendo a morte Luciano. Io fui il primo a parlare, qualche settimana più tardi, con Ghedin che era con Cecco in quella tragica serata. Pietro mi raccontò che prima di spirare Re Cecconi esclamò: "Non mi sono fatto niente. E invece...

Lei, prima dell’arrivo alla Lazio, indossò per tre anni anche la maglia della Roma di Helenio Herrera: che personaggio era  il “Mago”?

Quella giallorossa fu una parentesi poco fortunata di cui però non ho un ricordo negativo. Era comunque una Roma di livello, fatta di giocatori importanti. Quanto a me, non riuscii a mettermi in luce perché Herrera non mi stimava molto. Il Mago fu indubbiamente un grande allenatore, che però aveva un modo tutto suo di concepire il football. A Roma arrivò dopo l’epopea sulla panchina dell’Inter, era un allenatore ormai distratto e appagato, travolto dalle feste romane, che alternava geniali intuizioni a errori scolastici. Non sono mai riuscito a decifrarlo…

In quale giocatore di oggi si rivede?

Difficile rispondere a questa domanda. Io ero un giocatore un po’ atipico, per giocare al calcio mi sono dovuto reinventare terzino sinistro quando prima facevo la classica mezz’ala. Poi nella Lazio, per conquistarmi la fiducia del tecnico, mi sono trasformato nel ruolo di marcatore puro finendo anche per fare il libero. Nel calcio moderno tutto è cambiato, la versatilità è diventata la regola, i giocatori mostrano una maggiore disponibilità a ricoprire più ruoli.

Un giudizio sulla Lazio di oggi?

E' una buona squadra, gioca anche un calcio piacevole. Peccato non sia riuscita a ripetersi ai livelli della passata stagione. Stimavo molto Sarri, persona seria e competente, ma la sua avventura alla Lazio era ormai giunta al capolinea. Spero che Tudor faccia altrettanto bene sulla panchina biancoceleste.

Lei oggi che tipo di vita conduce? 

Faccio la spola tra la bellissima Lampedusa, dove ho allenato per un breve periodo la locale squadra di dilettanti, e Rosciano, il paese di origine della mia seconda moglie che sposai, curiosamente, il 12 maggio del 2000. Oggi vivo a Pescara e ogni tanto torno nella mia città natale, Ascoli Piceno, dove vivono i miei figli, tutti lazialissimi. Mi diverto molto con i miei nipoti. Il calcio ormai lo seguo solo in tv e ogni tanto sento i miei vecchi compagni come Garlaschelli e Oddi. Il tempo non ha intaccato la nostra amicizia, a dimostrazione che la "banda Maestrelli" era qualcosa di più che una semplice squadra di calcio.

Libero Marino 


 

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