Champions League, Bayern Monaco-Lazio: storia di una trasferta che non ci sarà
“La libertá é come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”
Accomunati da uno stesso stato d’animo
Matthias Hentschel non vuole ricordare il giorno che poteva essere il più felice dell’anno: il giorno in cui il Bayern Monaco ha vinto la Champions League. Il suo Bayern, che per dieci anni ha seguito in curva, anche in trasferta, senza saltarne una, amichevoli comprese. Poi è arrivata la pandemia, lo stop del calcio, e le porte chiuse al riavvio. “Quel giorno era bel tempo, probabilmente sono andato a fare un giro in bicicletta“, dice.
La Süddeutsche Zeitung racconta la sua piccola storia che ne racconta tante: i tifosi disamorati, per i quali lo stadio e la squadra erano tutto, e che proprio non riescono a godersi il calcio in tv. E’ una specie di percorso verso la sobrietà, a tappe forzate: dalla passione al nulla.
Hentschel ha 31 anni, la lunga barba e un gentile dialetto bavarese, è il presidente del “Club Nr.12”, l’organizzazione ultras del Bayern che ha un rapporto un po’ difficile con il club.
I tifosi del Bayern non hanno potuto godersi il miglior calcio del mondo ogni tre giorni, nel 2020: cinque titoli, una sola sconfitta in 48 partite. Sarebbe stato un sogno quest’anno. Ad agosto, quando il numero dei contagi era basso e le birrerie erano aperte alcuni festeggiavano in piazza la vittoria di Champions League.
Ma quando Hentschel parla del suo amore per il club non è entusiasta. Come molti ultras e gruppi di tifosi, anche il “Club Nr.12” ha criticato il fatto che la Bundesliga sia andata avanti con le tribune vuote. “Il calcio non è niente senza tifosi”, era quello il mantra.
Nostalgia canaglia
Da Monaco a Roma il passo breve e la nostalgia e il rimpianto di Matthias Hentschel sono anche un po’ i nostri. In un battito di ciglia ci siamo rivisti in lui, nel suo pensiero, nel suo modo di vivere il calcio.
Chi di noi non ha il rimpianto di aver perso il bel gioco della banda Inzaghi dell’ultimo anno, direttamente dagli spalti dell’Olimpico;
Il rimpianto delle trasferte, quelle importanti, quelle belle del 2021; del ritorno in Champions League visto dai gradini dello stadio; il rimpianto di non averlo vissuto in diretta, in prima persona, come le grandi notti magiche vissute fianco a fianco sulle tribune o in curva: Con gli amici di sempre, la birra, la sciarpa, la sigaretta tra le dita, la voglia di cantare, ridere, esultare, di abbracciarsi e festeggiare.
La partita di andata tra Lazio e Bayern Monaco, al di là del risultato, sarebbe stata una grande festa sugli spalti, un tripudio di gente, di colori e di cori.
Sarebbe stata una notte di quelle storiche che ricordi per tutta la vita, di quelle che riponi nel cuore, tra i momenti importanti e unici della tua esistenza.
Bayern Monaco-Lazio, valida per il ritorno degli ottavi di finale di Champions League, che andrà in scena Mercoledì, poi, sarebbe stata la trasferta con la T maiuscola, di quelle che non avremmo perso per nessun motivo al mondo.
La realtà è un’altra, la partita sarà a porte chiuse, come ormai avviene da un anno a questa parte, e lo stadio sarà vuoto, senza spettatori, senza anima.
Perché ormai da un anno a questa parte il calcio è così: senza anima! Senza anima da quando tutto è iniziato; quando il covid è entrato nelle nostre vite e ha profondamente cambiato il mondo e la nostra quotidianità.
Forse è superficiale, riduttivo, egoistico forse fuori luogo parlare di quanto il covid abbia rovinato il bello del calcio, in questo momento di sofferenza.
Ma per un tifoso il Calcio è tutto e l’anima di quel tutto è lo stadio!
Un anno di Covid-19
È passato poco più di un anno da quando, nel lodigiano e in particolare a Codogno, i primi casi di Covid-19 venivano segnalati in Italia. Tutto comincia nella serata del 20 febbraio 2020, quando un uomo di 38 anni di Codogno si reca al pronto soccorso con una polmonite grave, dunque con sintomi riconducibili al Covid-19. Il 21 febbraio 2020 viene annunciato come primo caso di Covid-19 locale italiano. Da quel momento in poi aumenta l’attenzione anche nel resto d’Italia, anche se si continua a pensare o a sperare, ancora per alcuni giorni, che il virus non si sia ampiamente diffuso anche nelle altre regioni. Alla fine di febbraio e nei primi giorni di marzo 2020 il contagio si è diffuso nel Nord Italia e inizia a manifestarsi anche in altre zone, anche se non con la stessa intensità. Il 4 marzo ci sono in tutto 2.700 casi documentati nel nostro paese e il 9 marzo 2020 l’ex premier Conte annuncerà il lockdown, in vigore dal 10 marzo. L’Italia è il primo paese in Europa colpito a documentare il contagio del coronavirus, nel mondo insieme a Iran e Corea del Sud (all’epoca globalmente i maggiormente intaccati, insieme alla Cina). Il resto lo conosciamo bene e lo abbiamo ripercorso ricordando le prime polmoniti misteriose di gennaio 2020, che in sostanza hanno aperto la strada all’epidemia (la presenza della pandemia verrà dichiarata dall’Oms ancora dopo, l’11 marzo 2020).
Il Calcio a porte chiuse
Parallelamente, nel mondo del calcio, i numerosi casi di positività emersi nelle rose dei venti club di Serie A hanno portato allo stop del massimo campionato italiano durante il periodo di lockdown nazionale, nel marzo scorso. Con circa due mesi di ritardo e un calendario fitto di impegni, alla fine la Serie A è giunta al termine. Le difficoltà si sono protratte fino alla stagione successiva, annullando di fatto la pausa estiva per far sì che il campionato riprendesse senza ulteriori ritardi.
Era l’8 marzo 2020, Parma-Spal: recupero della 25esima giornata di serie A, le tribune insolitamente vuote e uno strano balletto tra tamponi impazziti e quel ritornello, “si gioca o no?”. Sembrava una inquietudine passeggera, è diventata la normalità. Da quel giorno sono passati 12 mesi, un anno di solitudine per il calcio senza tifosi, cori e coreografie.
La pandemia che ha stravolto il mondo non ha risparmiato lo sport preferito dagli italiani, deciso peraltro a resistere. Ma da quel giorno è stato come andare sulle montagne russe delle emozioni. Il 10 marzo, la Figc ratifica la sospensione del campionato, di tutti i campionati, in base al decreto del governo per l’emergenza coronavirus. Non era mai successo, se non nel corso della Prima Guerra mondiale quando il calcio non era certo il fenomeno sociale di oggi. Il calcio sparisce dai radar, ma anche dall’interesse generale. L’Italia chiusa in casa per il lockdown piange le vittime, si trova le tasche sempre più vuote e se sventolano le bandiere dalle terrazze sono quelle dell’Italia, non quelle delle squadre.
Ma dopo un tira e molla con il Cts, il ministero della salute, quello dello sport, alla fine il calcio riesce a ripartire Il 20 giugno il campionato riprende, sempre a porte chiuse e con un rigido protocollo anti covid-19 da rispettare: la voglia di tornare in campo è tanta. Il 2 agosto la stagione 2019/20 arriva al traguardo: a vincere lo scudetto, come negli otto anni precedenti è la Juventus. Il 19 settembre in un fervore di speranze comincia la stagione 2020/21.
Il governo concede la presenza di mille persone, perchè i rischi di contagio non consentono di accogliere le richieste delle società di arrivare al 25/30% della capienza degli stadi. Il 4 ottobre, alla terza giornata, il virus entra prepotentemente in campo in occasione di Juventus-Napoli. La Asl competente ferma la squadra azzurra che deve raggiungere Torino, causa positività di alcuni giocatori. Tra giudizi e ricorsi, la sconfitta 0-3 inflitta a Napoli è annullata, la gara si giocherà il 17 marzo.
Il 25 ottobre la parentesi di speranza si chiude: un nuovo Dpcm obbliga il ritorno alle porte chiuse negli stadi di serie A, il virus non dà tregua.
Sociologia del tifoso: Aspetti introspettivi di una passione infinita
ll fenomeno del tifo organizzato oggi non è più un tema di grande attualità, in particolar modo da quando le cronache calcistiche hanno cominciato a riportare solamente i risultati della partite di calcio e gli episodi sugli spalti sono soltanto un lontano ricordo. C’è uno stretto rapporto che si viene a creare tra lo sport in generale e la società, con particolare riferimento alle identità locali, molto importanti nell’essere veri e propri punti di riferimento nella formazione dei gruppi che sorgono intorno al fenomeno sportivo, grazie al loro bagaglio di tradizioni e simboli di appartenenza. La relazione tra il tifo e l’identità mette in evidenza come il far parte di una particolare tifoseria implica nell’individuo un senso di appartenenza ad una comunità. E’ per questo che vengono creati e vengono adottati particolari simboli d, che accrescono nel tifoso il senso di identità e il particolare legame con la sua squadra del cuore.
il tifo organizzato è un fenomeno molto importante sociologicamente, in quanto è in relazione con molte sfere della società, a partire dalle comunità locali, fino a riguardare settori altrettanto importanti come la politica, la classe sociale e la comunicazione
Il tifo sportivo risponde ad un grande bisogno dell’uomo, quello cioè dell’identità sociale, l’identità legata all’appartenenza ad un gruppo, ad una categoria sociale. Il fenomeno del tifo va al di là della presenza allo stadio, pervade il comportamento, le motivazioni, gli atteggiamenti delle persone anche nelle altre circostanze della vita. L’essere tifoso aggiunge un elemento importante alla nostra identità, ma non avrà lo stesso valore per tutti. Ognuno di noi può avere uno o più gruppi verso cui sente legami più o meno forti e ciò lo influenzerà nei comportamenti. Un tifoso che vede la partita da casa, seppure tutte le settimane, sarà diverso dal tifoso che fa ruotare la sua vita intorno alle partite preparando striscioni e coreografie durante la settimana. Per il primo l’identità sociale legata al tifo è poco importante, per il secondo tale identità è fondamentale per il concetto di sé e il risultato delle partite avrà un’influenza molto forte sul suo stato emotivo.
Benedict Anderson, sociologo irlandese naturalizzato statunitense, occupandosi della formazione delle ideologie nazionalistiche, ha coniato il termine Comunità immaginata. Con questa espressione Anderson intende differenziare la comunità immaginata da quella effettiva perché essa non si fonda su una relazione personale diretta tra i suoi membri, ma solo sulla percezione di essere parte di una comunità di affini. Questa affinità può essere data da elementi come una lingua in comune, una religione uguale o da un senso comune del destino che associa gli individui. Le tifoserie del calcio si basano proprio su questo elemento, a cui aggiungono, in alcune occasioni, anche relazioni faccia a faccia. I tifosi delle varie squadre tendono a riconoscersi e sentirsi parte della stessa grande “famiglia” anche senza conoscersi, ma semplicemente in quanto si appartiene ad una comunità di affini. Nei gruppi di tifosi si sperimenta concretamente questa appartenenza. In questi termini, si condividono con gli altri sentimenti, evocazioni mitologiche, narrazioni epiche, positive e non, che vengono trasmesse di generazione in generazione dai tifosi. Si accentua il senso di opposizione con i nemici, l’opposizione “Noi-Loro”, “amico-nemico”. Il calcio, e le sue tifoserie, è caratterizzato da un continuo sistema di alleanze e rivalità; ogni club ha il proprio rivale numero uno, spesso l’altra squadra cittadina, e questo aspetto esalta il senso di appartenenza dei tifosi. Alla base di tutto c’è la cosiddetta equazione del beduino: l’amico del mio amico è mio amico, il nemico del mio amico è mio nemico, l’amico del mio nemico è mio nemico, il nemico del mio nemico è mio amico.
“Ma… non lo so, forse è qualcosa che non puoi capire se non ci sei dentro. Come fai a capire quando mancano tre minuti alla fine e stai due a uno in una semifinale e ti guardi intorno e vedi tutte quelle facce, migliaia di facce stravolte, tirate per la paura, la speranza, la tensione, tutti completamente persi senza nient’altro nella testa… E poi il fischio dell’arbitro e tutti che impazziscono e in quei minuti che seguono tu sei al centro del mondo, e il fatto che per te è così importante, che il casino che hai fatto è stato un momento cruciale in tutto questo rende la cosa speciale, perché sei stato decisivo come e quanto i giocatori, e se tu non ci fossi stato a chi fregherebbe niente del calcio? E la cosa stupenda è che tutto questo si ripete continuamente, c’è sempre un’altra stagione. Se perdi la finale di coppa in maggio puoi sempre aspettare il terzo turno in gennaio, che male c’è in questo? Anzi, è piuttosto confortante, se ci pensi”.
Questa frase, tratta dal film cult “Febbre a 90°”, è diventata ormai iconica per molte persone, anzi tifosi, che ogni fine settimana soffrono e gioiscono per le sorti della propria squadra. Una frase che, se si è dalla parte del tifo, fa venire un accenno di pelle d’oca e si prova un po’ di invidia per non averla partorita di propria penna; se si è invece dalla parte opposta, cioè da quella che vede il calcio come un gioco, un elemento sempre di contesto e mai centrale nella vita delle persone, leggendola si trova sempre più convinzione che i fanatici del calcio siano esagerati e che le proprie energie ( e denaro) andrebbero spese in maniere più produttive, soprattutto superata la fase adolescenziale. Il mio intento oggi è quello di trovare un punto di incontro: far capire ad entrambe le categorie, coloro che vivono e coloro che osservano da fuori il calcio, perché un genio della scrittura come Nick Hornby abbia deciso di dedicare un intero libro (e poi film) al calcio, andando oltre la banalità degli slogan da stadio e analizzando gli aspetti sociologici che caratterizzano il gioco più bello del mondo.
Scenari futuri
Oggi il mondo del calcio sta attraversando un dei periodi più complicati della sua lunga storia. Sono cambiate tante cose durante nel corso del 2020. Dalla chiusura degli stadi ai tifosi allo stop forzato di numerosi campionati europei. E ancora: lo slittamento di Euro 2020, che salvo imprevisti si disputerà tra giugno e luglio, ma anche l’enorme crisi finanziaria a cui i club di tutto il mondo hanno dovuto far fronte tra mancanza di introiti e riduzione dei costi gestionali. Un anno tragico, purtroppo, che lascerà scorie addirittura nei mesi a venire. Se nuovi vaccini saranno approvati in tempi molto rapidi, e se il governo riuscirà ad organizzare un piano di vaccinazioni molto efficiente, potremo sperare di superare la pandemia con il nuovo anno. È plausibile aspettarsi che gli stadi saranno riaperti agli spettatori, forse già dall’autunno 2021, ma in una prima fase transitoria potrebbe essere consentito l’accesso ad un pubblico statico e silenziato, più o meno come quello del tennis. L’augurio è quello di tornare presto alla normalità, di poter ricucire le ferite e rimettere in piedi un paese ormai lacerato da questo virus. L’auspicio è quello di fermare questa emorragia, fatta di perdite di vite umane e danni economici insanabili; di ritornare a quel 20 Febbraio 2020 quando tutto iniziato; Di riprenderci le nostre vite, le nostre libertà e per ultimo , perché no di poter ritornare allo stadio: Con gli amici di sempre, la birra, la sciarpa, la sigaretta tra le dita, la voglia di cantare, ridere, esultare, di abbracciarsi e festeggiare.